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Eremo S. pangrazio - Campodenno

INTRODUZIONE
 

Il presente progetto prevede, nell'ambito della totale riqualificazione e del restauro dell'eremitaggio di S. Pangrazio, nel Comune di Campodenno, una trasformazione del bosco circostante gli edifici della chiesa e dell'antico eremo che, senza interventi particolarmente radicali, permetta di percepire come era Organizzata nel passato l'intera area. Anticamente, e fino agli inizi di questo secolo, le terre circostanti l'eremo erano variamente coltivate ad arativo, orto e frutteto ed avevano il bosco tutt'attorno così da formare come una calotta libera al colle che si percepiva anche da molto lontano.
La proposta di rigoroso ripristino sarebbe quella quindi di liberare tutta l'area dalle piante ad alto fusto, trasformando a prato l'intera zona. Tale soluzione si presenta però improponibile sia sotto il punto di vista delle moderne teorie del restauro che sotto il profilo pratico. Visto anche l'uso turistico che si intende dare all'area risulta piu' opportuno che questa sia ombreggiata.

Per quanto riguarda quindi la sistemazione anzidetta si prevede di liberare il bosco da tutte le piante di tipo arbustivo lasciando solamente quelle ad alto fusto siano esse aghifoglie o latifoglie. In tal modo si presume che il visitatore possa ugualmente percepire la vastità del sito collegato all'eremo di S. Pangrazio.
Si prevede inoltre il ripristino di tutti i muri di cinta e di sostegno che circondano l'area, i quali sono in parte diroccati ed in parte ancora in buono stato. Per quelli diroccati è prevista la completa ricostruzione mentre per quelli in buono stato si prevede il rinforzo della sommità e la fugatura delle fessure.
Una presenza importante nella zona è data da una fonte di acqua situata leggermente a valle degli edifici, la quale è stata senz'altro fattore fondamentale per la nascita dell'eremo in questo luogo. Per essa si prevede la costruzione di una fontana la quale (anche se per la sua forma non si rispecchia particolarmente in  caratteristiche  tipologie rigorosamente locali) segna inequivocabilmente la presenza dell'acqua convogliata in una vasca, presumibilmente coperta, usata per le varie necessità quali l'abbeveraggio del

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bestiame, il lavaggio degli indumenti e gli usi domestici.
Nel sito è presente anche una antica trappola per lupi ora semidiroccata. Per essa si prevede il ripristino della muratura con pietrame originale ancora presente in loco e la protezione con una ringhiera in ferro data la sua notevole profondità.

Tutti gli elementi sopradescritti saranno collegati da un percorso caratterizzato da un sentiero della larghezza di circa 1.00 - 1.20 ml, con fondo in ghiaietta e protetta da parapetti in legno ove il passaggio puo' essere pericoloso. In un punto il sentiero approda ad uno sperone di roccia dal quale è possibile ammirare tutta la bassa Anaunia. Per accedere allo spuntone, data la presenza di un crepaccio, 

si prevede una passerella in legno e delle protezioni in ferro fissate saldamente alla roccia.
 

Per il sentiero è prevista una adeguata segnaletica con cartelli in legno che indicano sia il percorso sia alcune notizie storiche sull'eremo ed i suoi vari elementi. Detta segnaletica sarà inoltre dislocata lungo un sentiero che partendo dall'abitato di Campodenno si snoda lungo i boschi fino ad arrivare al colle di S. Pangrazio.

 Si prevedono 16 cartelli in legno con scritta pantografata e colorata a vernice piu' una bacheca posta in prossimità della chiesa riportante notizie storiche. A completamento dei lavori e per consentire una migliore permanenza dei visitatori sul colle si prevede la sistemazione in loco di undici tavoli da esterno in legno, da otto posti ciascuno, dislocati variamente sull'area. Detti tavoli possono essere usati anche durante le due tradizionali feste. 

NOTIZIE STORICHE SULL'EREMITAGGIO DI S.PANGRAZIO

Il dosso di S. Pangrazio è situato sopra Campodenno, fra Lover e Termon.

Ai piedi del colle la tradizione popolare vuole che esistesse un castelliere

preistorico, un "castellaccio" di cui si trova memoria anche in alcuni

documenti medievali e del quale restano soltanto pochissime sparse

rovine.

 

È noto infatti che i popoli antichi, e parliamo dell'età del bronzo e forse

anche prima, vivevano già in caratteristiche abitazioni preistoriche

fortificate, site sulla sommità di alture ben difese da barriere naturali o

da mura di cinta appositamente costruite, a cui davano il nome di

"castellieri". Ivi essi si rifugiavano temporaneamente, raccoglievano il

bestiame, oppure vi si stanziavano stabilmente per vivere sicuri

dall'assalto delle belve, dalle inondazioni delle acque dei fiumi senza

argini e altri pericoli di quei tempi.

(ORTORE EMILIA - CASTELLIERI DELLA VALLE DI NON ARCHIVIO ALTO

ADIGE a X4III 1949 cons VII e 14)

 

Desiderio Reich ci lascia una descrizione molto particolareggiata di questi castellieri. Si tratta per lo piu' di colli isolati e cadenti da tre lati meno, solitamente, da quello di settentrione, che serviva e serve da via d'accesso: la loro esteriorità è quasi dappertutto uguale. La forma è a cono appuntito, visto in distanza, ma in realtà è spianata in cima. Sono ancora per lo piu' coperti di bosco, se non sono stati ridotti a coltura; i loro fianchi sono ripidi e non vi si accede che rampicando; per lo piu' il lato di mattina - mezzogiorno ha l'impronta di esser stato manomesso, è terrazzato e le terrazze servivano di luogo di abitazione in capanne costruite l'una a ridosso dell'altra, sulla rampa, in cima alla quale, sulla spianata, si trovava la parte fortificata, l'acropoli o il propugnacolo ricinto da uno od anche da due muri di circonvallazione dello spessore variante da mezzo metro a due metri formati da grossi sassi raccolti sul posto o nelle immediate vicinanze, cementati a freddo, con arbusti o semplicemente uniti gli uni agli altri. Questo orlo di circonvallazione si rileva e si vede facilmente sulla corona dei colli, se anche coperti di piante o di erba. Sui castellieri piu' alti il segno piu' caratteristico è che il centro dell'argine circolare è un po' depresso, come additasse ad un edificio crollato e caduto su sè stesso, ed è di solito tutto coperto di arbusti di nocciole e raramente di alberi ad alto fusto. L'accesso a questi colli è sempre dalla parte meno ripida, da quella cioè colla quale sono uniti al terreno, come fossero penisole.(DESIDERIO REICH CASTELLIERI DEL TRENTINO SOC. RODODENDRO, STRENNA DEL 1904)

 
Si puo' notare come le analogie con il colle di S. Pancrazio si

ano numerose.
Ebbene, di questi castelli preistorici si conservano in Val di Non diverse tracce. Oltre al "castellaccio di Campo d'Enno", dicitura che si trova nei testi, i piu' memorabili sono il "caslir di Portolo o di Nano", detto anche castellare o castellir nei documenti, posto sulla penisola formata dall'unione della Tresenega col Noce, chiamata "finis mundi", ove probabilmente sorse il "castrum Anagni";il "caslir di San Zeno", sopra il quale ne sorse uno romano e poi medievale; il "castellazzo a mezzo monte" ad Occidente di Cles; il "dos da mul" a nord di Preghena; il "caslir" a Sudest di Rumo; il dosso di Tavon; il "caslir" a nord ovest di Malosco e il "Castellazz" di Vervo'.
Erano quelli che Orazio chiamava le "tremendae arces alpibu

s impositae".
Infatti i soldati romani agli ordini dei figliastri di Augusto, Druso e Tiberio, dovettero snidare le popolazioni celtiche che abitavano allora la valle da questi castelli e sembra che non fosse impresa molto semplice.
Durante il periodo romano poi la parola "castellum" si trova usata in vari e diversi significati: erano dette "castella" non solo queste robuste fortificazioni che gli alpigiani costruivano a loro difesa sulle rupi scoscese dei monti, ma pure le torri che a tratto a tratto sorgevano lungo le mura o i trinceramenti che cingevano un accampamento ovvero difendevano un largo spazio di territorio. Inoltre "castellum" era pure un piccolo accampamento fortificato e si usava per indicare una stazione militare fissa messa a custodia di qualche territorio da breve sottomesso e infido e a protezione di qualche via.
(ANTICHI CASTELLI ROMANI NELLA VALLE DI NON - VIGILIO INAMA).
 
I castellieri che non ebbero la fortuna di trasformarsi in un castello romano o medievale vennero abbandonati, alcuni già nell'età del ferro,poco prima della conquista romana, e dei villaggi si svilupparono ai loro piedi o in luoghi vicinissimi ad essi, la maggior parte dei quali si è sviluppata fino ai nostri giorni. Dei castellieri non rimangono che la posizione, il nome e informi mucchi di sassi con tracce di calce a freddo.

 

È ancora possibile trovare qualche oggetto in pietra, terra cotta, cocci o rari pezzi in bronzo.
A questo proposito Don C. Cattani nel numero 73 di Voce Cattolica del 1869, e la notizia è riportata anche da Simone Weber, racconta che "il 30 gennaio del 1852 nel cosidetto Faè sul Dos del Droneg, vicino all'Eremitaggio di S. Pancrazio, un contadino, estraendo materiale da fabbrica, rinvenne un piccolo gruppo antico di statue di bronzo, al

to un palmo e mezzo circa e larga ott'oncie, perfettamente conservato, su cui l'età non fece che stendere una bella patina verdoscura e tenacissima.Il soggetto del gruppo è un Apollo di bellissime forme sollevato in aria a metà d'una ringhieretta, che a forma di ellisse viene a ricongiungersi sotto di lui. Dal basso all'alto di questa ellisse vi sono quattro piccole colonne, che hanno per capitelli dei mascheroncini, ed una base semplicissima. Sopra la ringhiera allato dell'idolo posano due snelli levrieri colla testa sollevata come se attendessero i suoi cenni. Nella testa di questi si trova un anello ed una catenella, che serviva forse per sospendere tutto il gruppo.
Ai lati superiori della ringhiera, sporgono fuori ancora due teste di montone, ed agli inferiori due piedi caprini... Le braccia del nume sono distese in atto di trattar l'arco, i piedi sollevati, tutto l'atteggiamento svelto, aereo, divino. Cio' che lo fa singolarmente rimarcare si è: l'aver egli due levrieri dallato, cosa che non mi venne fatto d'incontrare in nessun altro luogo, ma che non deve recar meraviglia a chi sà la strettissima parentela, che si supponeva, e l'amore del Lungisaettante per Diana cacciatrice e Signora dei boschi. In quanto alla piccola balaustrata o ringhieretta essa potrebbe significare l'Aedes sacra, o il tempietto del nume". Il gruppo, che forse anzichè Apollo rappresenta Endimione, fu poi venduto per trenta marenghi ed ando' ad arricchire il museo di Torino.
 
Ai piedi dell'antico sito del "castellaccio", troviamo una piccola spianata detta "Camp del Marcà", poichè in occasione della Festa di S. Pangrazio era abitudine tenervi un mercato, consuetudine che dal Medioevo rimase fino alla fine del XVIII secolo.Questo spiega perchè negli antichi documenti il dosso di S. Pangrazio venga sempre indicato come "dossum fori S. Pangratii", cioè dosso della fiera di S.Pangrazio ed è ulteriore testimonianza che le antiche fiere si accompa-gnavano alla festa celebrata in onore di un santo.
Forse oggi puo' sembrare un posto strano per tenervi un mercato in quanto fuori mano e abba-stanza scomodo ma l'antica strada romana che da Andalo entrava nell'Anaunia, tenendosi sempre sulla sinistra dello Sporeggio e attraversando Cavedago, Sporminore, Denno, passava sull'altipiano dove oggi stanno i paesi di Dercolo e Termon, e proseguiva per Flavon, Nanno, Pavillo, S. Zenone, Rallo, Mechel e Cles lo rendeva facilmente accessibile e collegato con tutti i paesi della bassa valle di Non.

Non dimentichiamo che le valli erano attraversate da stretti sentieri che correvano sui fianchi dei monti, molto alti dal fondo della Valle per evitare inondazioni e guasti del torrente e per raggiungere piu' facilmente le insellature delle creste dei monti.
(Antichi castelli... e STORIA DELLE VALLI DI NON E DI SOLE - V. INAMA)
 
La prima notizia la troviamo su un antico documento col quale, nel 1363, Gislimberto di Denno viene investito di una parte del dosso "fori sancti Pangratii di Enno. Era un antico feudo dei signori de Enno, che troviamo successivamente confermato dal vescovo di Trento il 6 novembre del 1389 e il 6 giugno 1391 al nobile Giovanni del fu ser Gislimberto detto Berto de Enno; nel 1399 a Giovanni, Alberto e Bortolameo figli ed eredi del nobile Giovanni Gervasio di Enno; nel 1450 a Berto figlio del nobile Giovanni Gervasio; il 4 dicembre 1489 e il 3 gennaio 1498 a Riccardino del fu Leonardo di Taono ed a Berto del fu Antonio de Zentil de Enno; infine nel 1508 a Riccardino, Leonardo e Simone fratelli e figli di Leonardo di Taono, ad Antonio loro nipote e a Bortolameo del fu Antonio Zentil de Enno. La denominazione ricorre anche in una carta del 1449, dove si leggeva che certo Romerio di S. Pangrazio pagava, ogni anno, uno staro di vino all'ospedale di S. Maria di Campiglio, per l'eredità della signora Pugneta de Enno. In cima a questo colle vi è una chiesetta, appunto dedicata a San Pangrazio, e il sito che la circonda gode di una meravigliosa vista e dà una senzazione di tale amenità che non stupisce che il luogo fosse scelto come luogo ideale per un eremitaggio. Non si hanno notizie certe riguardo all'inizio di tale pratica ma è certo che nella metà del 1600 si parla della cosa come di un uso introdotto da molto tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il 16 settembre del 1666 il nobile Alessandro Oliva concedeva a Giovanni Paolo Robustelli di Voltolina o della Valtellina (i testi non sono concordi) di abitare in una parte di casa, indivisa con il signor Cristoforo suo fratello, posta sopra il dosso di S. Pangrazio, riservandosi il diritto di licenziarlo se non si fosse comportato come conveniva alla sua posizione. Il Robustelli, che aspirava alla vita eremitica, doveva procurarsi dall'ordinariato la facoltà di portare l'abito, la licenza di questua ed il consenso di poter abitare in quell'eremo.
Egli si obbligava inoltre di impiegare a vantaggio della chiesa, affidata anch'essa alla sua custodia, tutto quello che gli avanzava dal questuare. Se il Robustelli non fosse riuscito a mantenerla come di convenienza, il nobile Oliva sarebbe intervenuto in concorso alle spese giudicate necessarie per la chiesa.
Affinchè l'eremita potesse piu' facilmente procacciarsi il necessario per vivere, gli si assegnavano pure i campi circostanti alla chiesa, col permesso di assumere un uomo per un mese o due all'anno per coltivarli. I campi ed il prato che erano sul dosso costituivano, praticamente, il patrimonio della chiesa, perchè il possesso di questi comportava l'obbligo di mantenerla e provvederla del necessario.
Essa possedeva anche alcuni pochi affitti a Termon, a Campo e a Dercolo, provenienti da legati di alcuni benefattori. Anticamente era tenuta in molta devozione dagli abitanti dei paesi vicini e quelli di Campo vi si recavano processionalmente la festa di S. Pangrazio, durante le Rogazioni, oppure in occasione di siccità.
Nel giorno del patrono si distribuiva una "carità di pane", lasciata con testamento del 16 agosto 1694 dal nobile Bortolameo del fu Pietro Campi di Campodenno.
La chiesa aveva due altari che dai segni esterni, nella visita del 1695, furono ritenuti consacrati. L'altar maggiore era dedicato a S. Pangrazio, il laterale a sinistra al SS. Crocifisso.
Le icone erano "antiche e decorose et ligneo opere ornatae". Tanto sugli altari che sulle pareti stavano appese alcune statue deformi per la vecchiaia e si ordino' di levarle. Il tetto aveva biso-gno di riparo e si invito' il nobile Alessandro Oliva a procedere ai necessari restauri, interdicendo la chiesa finchè non fossero stati eseguiti. Ma nè lui nè i suoi eredi se ne occuparono benchè diffidati piu' volte e minacciati.
La chiesa nel 1708 era priva di eremita e in condizioni così deplorevoli che i Visitatori, vista la negligenza e la contumacia dei nobili Oliva, li dichiararono "del tutto decaduti da qualunque ragione che avevano, o aver potessero sopra i beni alla stessa cappella spettanti" e si riservarono il diritto di disporre e assegnare a persona di loro favore beni e l'obbligo di mantenere la chiesa.
Della chiesa e del dosso di S. Pangrazio fu investito il conte Francesco Kuen di Castel Belasio, coll'onere di provvedere alla chiesa. Il conte concesse l'eremitaggio a Giovanni Battista Scalfi di Fondo, ma poco dpo l'eremita, causa una lite insorta fra il conte Kuen e i nobili Oliva, lascio' S. Pangrazio e si ritiro' a S. Emerenziana presso Tuenno.
La lite dopo qualche anno si compose con una convenzione in forza della quale gli Oliva rientravano in possesso di S. Pangrazio.

Si giunse così al 1742, e i sacri Visitatori trovarono gli altari sconsacrati e sforniti d'ogni cosa, la chiesa spoglia di suppellettili, la torre senza campana e, addirittura, qualche minaccia di rovina.
Interrogato il nobile Alesandro del fu Giorgio Oliva di Campo Denno rispose: "Vent'anni fa e piu' fu levato a mio padre l'ius che aveva sopra la chiesa e i beni aderenti dall'ill.mo conte Francesco Kuen di Castel Belasio, su di che qualche anno dopo fu fatto aggiustamernto fra i detti conti e mio padre, che dovesse esso conte riparare la chiesa, a qual fine gli lascio' regnesi cento e quattordesi, come appare dal processo fabbricato dal fu d.r. Francesco Guardi, che tengo nelle mani, quali dovavano essere impiegati a beneficio della chiesa, benchè cio' non sia stato adempito, supponendo che il medesimo conte sia obbligato al mantenimento della medesima e che abbia anche ricevuto del denaro dal Romito che ora sta a S. Emerengiana per lasciarlo abitare l'eremitaggio di S. Pangrazio."
I Visitatori invitarono il conte a provvedere, ma egli addosso' ogni responsabilità e obbligo sull'Oliva investito del beneficio. Si scrisse, si minaccio', ma senza risultato alcuno e la chiesa rimase ancora per molti anni in quelle deplorevoli condizioni. Solamente l'altar maggiore venne fornito di un ara portatile a cura, sembra, dell'eremita di allora Paolo Mayr di Bolzano (1742) o del suo successore Tommaso Cattan di Termon (1748). Nel 1751 anche l'eremitaggio era desolato e quasi distrutto, poichè non era abitato da nessuno. Le ripetute istanze fatte dalle autorità per il restauro non approdarono a nulla. Nel 1766 alla chiesa mancavano i vetri alle finestre, il tetto era rotto in piu' punti, i muri erano macchiati e sgretolati e gli altari, considerati ancora consacrati, presentavano statue e quadri così deformi che venne ordinato di toglierli. La chiesa fu nuovamente interdetta e venne finalmente rastaurata dai nobili Oliva. Nel 1785 vi dimorava l'eremita Giuseppe Michele Dalla Val di Flavon, il quale aveva ottenuto licenza di vestir l'abito il 3 luglio 1772. Accusato di irregolare contegno, fu giustificato dal parroco di Denno che accerto' la sua innocenza. Il Dalla Val fu l'ultimo eremita di S. Pangrazio.

La chiesa, rimasta ancora una volta priva di custode, ando' deperendo. Fu solo nella prima metà del 1800, quando già aveva cominciato a rovinare, che il nobile Alessandro de Oliva ne curo' il restauro, come fa fede un' iscrizione che possiamo tuttora leggere sulla parete interna a destra sopra la porta. Dice: "Haec perquam vetusta acclesia dicata Sancto Pangratio a quinque ab hinc lustris ruinam passa, novata fuit pietate nob. Alexandri de Oliva anno 1831.
Nel 1912, anno in cui Simone Weber pubblica il fascicoletto "L'eremitaggio di S.Pangrazio" la chiesetta, salvo leggere modificazioni, conserva ancora l'antica forma che si puo' far risalire alla fine del 1400. Si puo' leggere che "il portale archiacuto ha, nella pietra centrale dell'arco, scolpita una croce, sopra nel mezzo della facciata, evvi una nicchia poco profonda, coronata da quattro archetti, nella quale si vedono gli avanzi di quattro figure di Santi ivi dipinti. A destra della porta, un rozzo finestrino rettangolare, un'altra apertura semicircolare nella parete a mezzodì, ed una rotonda nell'abside per la quale la chiesa riceve i primi raggi del sole oriente. L'interno è povero e squallido, un vano rettangolare rastremantesi nel presbiterio, una porticina a destra, che dà accesso al vecchio campanile, un altarino nel mezzo adorno d'una piccola pala, nude le pareti e l'avvolto, e recanti le tracce del tempo e della umidità. Tutto il complesso presenta una parvenza di antichità. Lateralmente alla chiesa esiste una casa di ad uso di contadini, dove si trovava l'abitazione degli eremiti.
Ora la casa è disabitata, i campi sono incolti e la chiesa non viene officiata che una volta all'anno dal curato di Campo Denno, che ci si reca a celebrare la messa la festa di S. Pangrazio. Abbandonata com'è non è difficile prevedere ch'esse incontrerà la sorte che già subirono la maggior parte delle nostre chiese alpestri."
Questa la profezia di monsignor Weber che, se non si è avverata per la chiesetta, è purtroppo la realtà per la casa adiacente. 

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CONSIDERAZIONI

 La presenza dell'antico castelliere, della piazza per il mercato ed il passaggio della strada vicino alla chiesa di S. Pangrazio, sono  elementi  che inducono a supporre con una certa sicurezza   (anche se i documenti non ne fanno cenno) che il luogo non sia stato nell'antichita' un semplice eremitaggio ma un sito piu' complesso dotato di foresteria, un luogo ove il viandante poteva sostare e trovare albergo per se e per gli animali. Questa ipotesi puo' trovare sostegno nei documenti antichi che fino al 1666 (anno in cui il nobile Alessandro de Oliva concedeva l'abitazione all'eremita Robustelli da Valtellina) non parlano mai di eremitaggio ma di "fori sancti Pangratii" d' Enno , cioe' di luogo in cui si svolge la fiera: e' quindi pensabile che la fiera si svolgesse in luogo comodo servito da una strada e non certo con le caratteristiche di un eremitaggio. Inoltre se confrontiamo le dimensioni della casa di abitazione di S. Pangrazio con quelle di altri eremitaggi riesce difficile pensare che un edificio cosi' grande (circa 155 mq) possa essere servito per l'alloggio di una sola persona anche se questa doveva accudire ai campi adiacenti.

 

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In seguito (verso la meta' del Seicento) le vie  di comunicazione si spostarono verso valle isolando completamente il dosso di S. Pangrazio dal transito ed e' proprio di quel tempo che si hanno i primi documenti della presenza degli eremiti. L'uso come eremitaggio del sito di S. Pangrazio e' quindi la conseguenza del decadimento di una struttura piu' complessa.
La presente analisi storica non vuole essere certo esaustiva della complessa realta' dei succedimenti storici del luogo ma la mancanza di ulteriori elementi di analisi la fermano qui. Si auspica co-munque che nuove ricerche ed elementi messi in luce da scavi archeologici possano chiarire meglio la storia di questo interessante sito. 

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PROGETTO
 

Anche per quanto detto in precedenza un intervento sugli edifici di S. Pangrazio non puo' essere certo un'operazione definitiva ma, al contrario, che consenta a chi, in futuro prossimo o lontano, assumera' ulteriori elementi che ne definiscano meglio l'identita', di operare sui manufatti leggendone le strutture tematiche  perlomeno  nella misura in cui siamo in grado di farlo noi oggi. Nessun ripristino formale quindi ma conservazione, manutenzione e restauro reversibile. Questa sembra la formula ottima per pensare un intervento in un simile luogo. Il risultato
finale  pero'  sarebbe solo un rudere nuovo di zecca, lasciato   per ricordare che in quel posto esisteva un edificio e per ricominciare da capo un lento ed inesorabile degrado. Se fosse invece dare a questo edificio un uso anche differente dall'originale, ma che non intacchi il tema e che nello stesso tempo gli permetta di rivivere e di essere considerato?

 

Nel presente progetto si tenta di sviluppare proprio questa tematica sommando alla disciplina della conservazione anche uno sfruttamento dell'edificio come un piccolo centro polivalente con delle attivita' che si adattano al contenitore conservato senza stravolgere la struttura e consentendo quindi un eventuale futuro intervento di restauro. Le coperture in legno previste sono facilmente amovibili ed accentuano la lettura tematica dell'edificio senza intaccarne la struttura originaria.
Naturalmente quanto detto finora vale per l'edificio dell'eremo mentre per il resto del luogo visto nel suo complesso si e' tentato di dare la possibilita' di percepire il sito nella sua interezza storica e percio' si e' tenuto conto degli antichi campi, dei vari muri di sostegno e di confine, delle strade, dei sentieri, della sorgente d'acqua, ecc., mettendoli in evidenza senza proporne il ripristino formale che stravolgerebbe eccessivamente il luogo.
Nel caso della fontana, ad esempio, si e' progettato un elemento che, anche se puo' essere considerato arbitrario nella forma, crea un segno forte per quanto riguarda la presenza dell'acqua ed il suo uso come lavatoio, abbeveratoio, ecc. La pulizia del bosco dagli arbusti ed il ripristino delle murature saranno sufficenti per dare modo di percepire l'estensione delle pertinenze dell'eremo.
Per quanto riguarda la chiesa saranno eseguiti dei lavori di restauro descritti in seguito.
Nelle vicinanze della chiesa e' presente una grande baita in legno e mattoni, costruita alcuni anni orsono dall'A.S.U.C. di Campodenno e usata dalla stessa per tenervi le feste paesane. Data la sua mole notevole, l'edificio si configura come valore negativo nell'ottica del parziale ripristino del luogo e quindi, successivamente ai lavori, sara' presa in considerazione la possibilita' della demolizione dello stesso.