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Monumento ai Caduti - Malosco

ritratto

L'AUTORE DEL MONUMENTO - GIORGIO WENTER MARINI

 

Nasce a Rovereto l’8 febbraio 1890, durante un inverno freddissimo, a Palazzo Fedrigotti,

austera residenza padronale, figlio di Giuseppe Wenter e Maria Marini. Il cognome materno

lo aggiunse nel 1917, mentre lavorava a Roma presso lo studio di Marcello Piacentini, perché

stufo delle polemiche e delle  critiche su quel suo “essere straniero” e “fungo parassita”.
Nella sua memoria i primi anni di vita scorrono così: “Due rigide stanzone a stucchi

settecenteschi. Stufe rotonde, monumentali, in ceramica. Palazzo su Corso San Rocco di

Rovereto, disabitato. Giovane mamma. Gracile bambinetto. Affannata. Lo riscalda con l’alito

novello “bue e asinello” d’un presepio. Cascami di seta della nonna, per tenerlo caldo.

E’ febbraio. Solo l’eco riporta, dall’angolo opposto del cortile circolare, speronato, la voce

stentorea di Primo, l’ortolano. Abita nell’antica cucina padronale. E il vecchio Valentino.
Un povero ex voto all’altare della Madonna nella chiesa di Loreto. Mi vedo nella grande cucina

di casa Tisi. Ampia scansia all’intorno, di tutt’altezza, come in una sagrestia. Sul seggiolone,

all’angolo estremo della grande tavola. Piattello in ferro smaltato, per reggere ai frequenti voli,

con un omino fra ornati azzurri. Candido bavaglino.  Grembiuletto a righe biancazzurre, da

asilotto. Alle prese con involtini di polenta gialli, cosparsi di molto formaggio grattugiato e di

burro fritto. Primi disegni a matita colorata. Sotto gli occhi della signorina dell’ultimo piano.

Quadernetto quadrettato.  “La Croce di Santa Maria, dai mille lumetti ad olio, la sera del

Venerdì Santo”. Lunghe soste, nei Paganini, tornando dalla maestra Gonfalonieri, avanti alla

vetrina del decoratore Bisoffi, che pitturava. Tanti barattoli preparati di colore acquoso, da

parte; gli occhiali sulla punta del naso. E medaglioni in gesso, patinati in oro, argento e rame,

di Rosmini e di Verdi, che mandava dappertutto. Ecco i più lontani ricordi.”
In quel fine secolo assiste al restauro di palazzi a opera di artisti come il Sezanne,  che lavorano in stile rinascimentale, italico: a Rovereto sta sbocciando l’irredentismo e il piccolo Giorgio passa ore ad osservare affascinato il fiorire di artisti e opere d’arte.
Dal 1901 al 1909 frequenta la Scuola Reale Elisabettina.  Per un eccezionale incontro di insegnanti, programmi e allievi, da questo istituto usciranno personaggi come il Wenter stesso, Depero, i due  Baldessari, Garbari, Tiella, Costa, Tonini Bonazza, Martinelli, Maganzini, Cainelli, Armani, Melotti, Fiumi, Caproni e Maroni. Apprende i rudimenti del disegni e dell’acquerello da Luigi Comel, insegnamento che gli resterà fortemente impresso, la geometria e l’assonometria da Coriselli.
L’ovvio proseguimento, con Rovereto ancora territorio austro-ungarico, è il corso di Architettura del Politecnico Reale di Vienna. Ma lui e i suoi compagni filo italiani sono malvisti e mal sopportati da professori e allievi; così già nel 1910 lo troviamo a Monaco dove frequenta la Reale Accademia Superiore di Belle Arti e la facoltà di architettura della Regia Scuola Tecnica Superiore Bavarese, presso la quale si diploma ingegnere architetto con un ottima media.
Rientrato in Trentino svolge il suo primo praticantato di restauro, collaborando con l’ingegner Dorna, l’architetto Grillo e l’ingegner Florio a Stenico, nelle Giudicarie, distrutto da un incendio.
Studia le rovine e visita con cura i dintorni per mantenere particolarmente il carattere montano del paese e rivalutare il lato tecnico-artistico. Riesce ad afferrare l’importanza dei particolari locali e sostituisce previste architravi in muratura con quelle in legno, ballatoi in ferro battuto con quelli tipici in legno traforato, modifica le sporgenze di gronda predeterminate e apre ampi timpani per arieggiare i fienili. Riuscirà così a guadagnare il rispetto e l’approvazione degli abitanti e dei tecnici e colleghi.
Ciononostante dovrà prendere la sofferta decisione di fuggire, disertore, in Italia. Così, nel 1915, lo

troviamo a Roma, dove collabora con Giacomo Boni, il prof. Collini e il prof. Maturi a rilevare palazzi,

ritrovamenti ed iscrizioni, grazie anche alla frequentazione dei due concittadini archeologi Paolo Orsi

e Federico Halbherr. Lo troviamo finalmente nello studio di Marcello Piacentini dove nei successivi tre

anni si occuperà, oltre che del famoso Corso Cinema Teatro, di vari progetti di sistemazioni edilizie ed

urbanistiche.
In tutti questi anni parallelamente all’architettura Wenter si dedica moltissimo alla pittura ed alla

grafica, conseguenza naturale alla preparazione multidisciplinare delle scuole austriache. Troviamo, nei

suoi lavori, un approccio “pittorico”; le architetture dipinte, per lui, sono cosa normale. Uno dei suoi

modelli preferiti, oltre a Heini, Klimt, Schiele, Egger-Lienz ed altri, sarà Segantini, del quale troviamo

l’influenza in numerose opere wenteriane, soprattutto giovanili.
Altra arte in cui eccellerà sarà il graffito. In un  articolo su L’Architettura Italiana il prof. arch. Alberto

Miccicchè, afferma: “ma il lato veramente geniale ed originale di G.W.M., e che lo distingue da ogni altro,

è la sua magistrale competenza nell’arte del graffito; …A quest’arte egli si è dedicato con tale passione

che (acquistata una virtuosità di tecnica impareggiabile) è riuscito a darci dei piccoli capolavori. … Nella

cappella di S. Ilario di Rovereto la potenza del graffito è tale che la chiesina si direbbe decorata a mosaico

e del miglior mosaico dell’epoca bizantina. … Si direbbe una reincarnazione degli artefici del primo

rinascimento, tanta è la fede e l’entusiasmo con cui lavora.”
Oltre che a S. Ilario opere a graffito del Wenter le possiamo ammirare nella chiesa della Madonna del

Carmelo, sempre a Rovereto, Nella parrocchiale di Dasindo (timpano), il tabernacolo di Monatagnaga di

Pinè e in varie opere minori tra le quali la cappellina del Cimitero di Malosco.
Nel 1919 viene richiamato in Trentino dall’amico Giuseppe Gerola, al Commissariato per le Belle Arti del Regio Governatorato di Trento.
Il lavoro svolto a Stenico non era stato dimenticato e aggiunto alla maggior esperienza acquisita a Roma e alla convinzione, più volte esternata in articoli precedenti ancora la fine della guerra, che fosse necessario il maggior rispetto della tipologia dei luoghi, che i piani regolatori dovessero dare solo indicazioni di massima, che necessitasse un  idea conservatrice, di preservazione dell’identità alpina, ne faceva l’uomo ideale a cui affidare l’imponente compito di affrontare gli enormi problemi derivanti dalla ricostruzione dei paesi danneggiati.
L’impegno dimostrato, e i risultati ottenuti, porteranno l’arcivescovo di Trento, Monsignor Endrici, a nominarlo anche consigliere per l’Opera di Soccorso delle Chiese Rovinate dalla Guerra, incarico prestigioso che lo vedrà attivo in tutta la provincia.
L’anno successivo entrerà pure nell’Amministrazione Provinciale come architetto con l’incarico della manutenzione degli edifici provinciali e come consulente agli uffici edilizi e di urbanistica.
Nel settembre del 1921 giunge anche la convocazione quale membro della “Commissione consultiva per l’esame degli erigendi monumenti commemorativi dei fatti e dei caduti in guerra”. E in Trentino il Wenter di monumenti ai caduti ne progetterà quasi una decina, tra i quali quello, appunto, di Malosco.
In effetti gli anni Venti saranno, per quanto riguarda l’architettura, i più prolifici del Wenter Marini. Leggendo i suoi appunti autobiografici ci si può fare un’idea abbastanza precisa della sua concezione su questo argomento: “Complessa attività mezzo architetto, mezzo pittore. Concezione dell’opera nell’ambiente che la deve circondare ed accogliere. Quadro armonico, costruito plasticamente a valore spaziale e di colore allo stesso tempo. Studio stilistico delle architetture, non disgiunto dal concetto urbanistico che deve mantenere i rapporti scalari fra edificio, piazza, strada. E nello stesso tempo valorizzare l’antico, ma esprimere il proprio tempo sinceramente, senza mascherature, concessioni, compromessi. Avversione alla faciloneria ed alla superficialità allora imperante delle ornamentazioni assurde. (più avanti dirà : il mio primo compito fu quello di combattere decisamente il capitelluccio a fiorami e nastri svolazzanti, il virtuosismo alla Basile, per far comprendere   la sana derivazione dell’ornato dalla natura. Contrapporre al facile e troppo lezioso liberty, il senso della forma e della misura che noi amiamo nell’arte egizia, grecoromana, cinese come pure nella Rinascenza italiana.) Falsi orpelli in vile cemento in serie. Valorizzare invece, i nostri materiali del sito, che sono tutti belli e giocondi: pietra, mattone, cemento, ferro, legno. In maniera sana, spregiudicata, elementare, genuina, per una moralità artistica e professionale di ben fare, che aborre il falso ed ama la proprietà. (…) E’ l’idea programmatica. Studio del passato come composizione stilistica comparata, sotto forma di disegni analitici in maniera molto sintetica. In cui il finimento ornamentale, che ne caratterizza poi l’epoca, secondo il quale si parla comunemente di stile, è sorvolato per accentuare invece il concetto, lo spunto, il motivo architettonico dominante nel gioco sapiente delle proporzioni. Severa raccolta di elementi, di idee, per addivenire poi alla creazione.  Ed allora, non si scopiazza o si imita, ma si progetta moderno, aderente al tempo in cui si opera, ai materiali da costruzione che si trovano sul sito ed all’ambiente che deve accogliere la nuova opera.”
 Wenter Marini in quel periodo fa parte, anzi ne è il portavoce, del Circolo Artistico Tridentino, cui fanno parte pure Sottsass Sr, Tomasi, Bonazza ed altri. Si trattava di artisti formatisi nelle scuole austriache o tedesche che venivano visti come “nostalgici” in un clima di italianizzazione. E’ di questo periodo, 1922, la polemica sull’Istituto Educativo Provinciale di S. Ilario a Rovereto che era stato affidato al Wenter Marini, salvo essere poi bloccato, con decreto civico, dall’ingegnere capo del Comune perché di “architettura perfettamente tedesca”. A seguito di un sopralluogo congiunto di Belle Arti e Lavori Pubblici il progetto fu pienamente riabilitato come “concepito secondo le direttive dell’arte moderna italiana e con il rispetto delle esigenze estetiche dell’ambiente cui era riferita”, ma la vicenda è sintomatica del clima dell’epoca. Già quattro anni prima con un articolo su Alba Trentina il Wenter era intervenuto auspicando che “il caldo abbraccio italiano” non cancellasse le connotazioni tipologiche montane, cioè trentine, perché viste troppo tedesche dalla politica anti-tedesca del governo romano. Secondo lui la tipologia trentina del costruire non era più tedesca ma neanche proprio italiana: era montana, trentina, appunto. Cerca di smuovere i tecnici locali da quel rifiutare a priori ogni elemento tedescofilo per far loro capire che la “trentinità” aveva delle sue peculiarità che andavano al di là delle influenze nordiche.
Giorgio Wenter Marini era una personalità tesa al dialogo, forse a volte alla retorica, ma sempre in termini costruttivi. Presenta lavori (vedi ad esempio il progetto per la sistemazione dell’area “ai Muredei” a Trento), riconosciuti dalla critica ma inesorabilmente respinti dalle commissioni giudicatrici, organizza esposizioni d’arte e di architettura, interviene spessissimo sulle pagine dei giornali locali , il tutto nell’ottica di sollecitare una risposta, di partecipare la società alle problematiche che tanto lo interessavano, ma spesso gli tocca la parte dell’incompreso.
Questa posizione di “conservazione”, di regola, del Wenter contrapposta a quella dell’”innovazione” , della rivolta, dei futuristi cui faceva capo Depero, sottolineata ampiamente dalla polemiche tra i due seguite alla Mostra d’Arte del 1922,  porterà il nostro uomo a una specie di rinuncia, ad un  isolamento causa il quale si  interesserà sempre più strettamente all’aspetto  professionale lasciando poco alla volta il pubblico dibattito artistico fino a quando nel 1927 abbandonerà la professione e passerà all’insegnamento.  Non sarà una decisione dovuta ad un colpo di testa ma la conclusione di un calvario durato alcuni anni. Dopo la vicenda dei futuristi infatti un nuovo smacco: nel 1924 a Trento si tenne la Mostra Vigiliana di Architettura Moderna. Per il Wenter Marini era una magnifica occasione per far conoscere e apprezzare le caratteristiche del “costruire trentino”. Per far ciò delinea un manifesto programmatico d’intenti della scuola trentina; “costruire semplicemente ma in maniera che l’edificio corrisponda al suo scopo, sia comodo, pratico, igienico…. Costruire semplicemente significa pure senza inutili fronzoli ma in belle proporzioni, usando i nostri bellissimi materiali, noi che siamo nei paesi della pietra. E costruire anche ambientandoci cioè unendoci per uso di materiali, per adozione di forme costruttive nostrane e per uso di motivi nostri e caratteristici dell’ambiente.”
La mostra fu affiancata da un’imponente azione promozionale ma vuoi per la scarsa abitudine del pubblico ai fogli progettuali, vuoi per la limitazione ai soli esponenti del Circolo Artistico, scelta che scatenò critiche e antipatie, vuoi per il momento non favorevole, non  ebbe il successo sperato, anzi il Wenter lamenta che “la cittadinanza intellettuale non volle assolutamente aprire gli occhi” e aggiunge che “era l’unica occasione in cui questo gruppo moderno di architetti alle parole presentava i fatti, che valevano molto più di polemiche, chiacchiere o critiche.”
Aggiungiamo che fra il 1920 ed il 1925 il Wenter si era sposato ed era diventato padre di due bambini,

Riccardo ed Eliana, cosa questa che aveva un po’ stemperato i suoi lati più intransigenti anche in vista

della necessità di una maggior tranquillità economica. Ed ecco il colpo di grazia: nell’aprile del 1927,

siamo in piena crisi edilizia, viene congedato dall’Amministrazione Provinciale, dal cui servizio era stato

esonerato dal mese precedente.
Sappiamo, dalla corrispondenza fra due amici (Tomasi e Bonapace), che sul lavoro l’aria era pesante da

un po’. Aveva avuto problemi per la decorazione di S. Ilario, peraltro lodata da esperti e riviste, e addirittura

un processo disciplinare per la decorazione della sala della R. Prefettura, eseguita durante le vacanze.

“Alla Provincia preferiscono l’uomo macchina all’uomo artista. Lo seccarono ed irritarono in modo

veramente biasimevole. … Solo con il povero Wenter vollero osservare scrupolosamente la legge!!

Altri invece, che hanno lavorato dopo l’ufficio, dunque contro la legge, si sono preso il titolo di cavaliere…” 
Amareggiato, disilluso e senza prospettive di lavoro, scrive all’amico Oddone Tomasi: “Vivo ritiratissimo e

sento che molti si sono allontanati da me. E’ il solito quando succede un rovescio di fortuna. Sono così

lieto che la zavorra delle conoscenze se ne sia andata.” Tutto ciò lo porterà ad un grave esaurimento nervoso,

nei primi mesi del 1928, dal quale però riuscirà ad uscire grazie ad un nuovo interesse che risveglia tutta la

sua combattività ed energia: viene nominato insegnante di disegno professionale presso la Scuola d’Arte

Industriale di Cortina d’Ampezzo.
Questa opportunità viene presa molto seriamente dal Wenter Marini che si scopre, suo malgrado,

insegnante di grande talento. Farà rinascere e riscoprire ai suoi allievi l’arte applicata, la ceramica, l’intarsio,

i lavori in metallo, la tessitura ed il mosaico. “Sognavo così un artigianato più elevato del semplice industriale,

che sentisse e curasse il suo mestiere, congegnato orchestralmente, per raggiungere quella finitezza

armonica che emana dalla cose passate. ...  Il contatto diretto con pittori e scultori amplificò le mie

possibilità lavorative, perfezionò, affinò, approfondì la mia visione simultanea. Allargò anche la possibilità

creativa, produttiva, col concorso di altre menti e di altrettante braccia.”
Dopo Cortina lo troviamo a Cantù e a Padova, ma sempre per brevi periodi. Nel 1938 finalmente a Venezia,

incaricato della cattedra di Architettura e Costruzioni all’Istituto d’Arte di Venezia. Nel 1944 la libera docenza

per l’insegnamento di Architettura degli Interni, Arredamento e Decorazione presso l’Istituto Universitario

di Architettura di Venezia e nel 1953 diviene direttore all’Istituto d’Arte governativo, sempre di Venezia,

dove già insegnava. Il rapporto con gli allievi, con le “giovani menti”, lo attirerà sempre più e sarà fonte di grande gratificazione per entrambe le parti. “Difatti ho costruito, nel vero senso della parola, in questi nove anni, la « scuola ». Mi sono fatti prima gli insegnanti: collaboratori ideali, i veri ferri del mestieri. Immettendoli , poi, nella scolaresca operante. Questa creazione viva, che ha plasmato i più diretti colleghi, costituisce certamente la  mia più ambita soddisfazione, che intesi come missione. Dare la massima libertà agli insegnanti ed ancor più agli allievi, concedere a tutti la rara soddisfazione di fare quanto si vuole, si crede bene e bello fare, con piena libertà e responsabilità. … Una sana coscienza ed una fiducia in se stesso nel giovane artigiano, che deve fare opera d’arte, senza tirar via, speculare inopportunamente. Fare bene, anche se costa il doppio. Se no, rifare.”
Rimarrà a Venezia fino alla morte, nel 1973.
 
“L’architetto deve essere all’avanguardia. Essere precursore. Prevenire. Prevedere. Mettersi in testa al movimento ascensionale  del pubblico. Risolvere tanti problemi per abbellire la vita, nella casa e nella città, dove opera e vive.”
“ Si dice che io sia scontroso, schivo, solitario, intransigente, più adatto a far chiese e cimiteri, che non teatri e cinematografi. I miei clienti ed estimatori furono rari. Non ebbi occasione di costruire, per il mio temperamento tutto d’un pezzo. Non concordante. Assoluto. E’ vero. Sono riservato. Di poche parole. Ma a tempo giusto, quando l’argomento m’interessa e m’appassiona, quando sono con i miei ragazzi, divento loquace, per portare ragioni e argomenti, per convincere. Persuadere. Nemico sempre di compromessi, concessioni, opportunismi.”  
“Non è detto che il montanaro sia chiuso allo spirito del bello e, forse, ha più venerazione che non l’artigiano di città. Perché in alto, sopra le miserie umane e i fumi della civiltà, lassù tra le montagne più maestose, fra l’infuriare della tempesta, l’urlo dell’uragano ed il sole più bello, l’animo si esalta, diventa poeta e filosofo. Più sano e più semplice.”

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DESCRIZIONE DELL’EDIFICIO STATO GENERALE DI CONSERVAZIONE

E IPOTESI GENERALE DI INTERVENTO
 

A Malosco 1925 l'artista unisce sensibilità verso il contesto a maestria nella tecnica della decorazione "a graffito" in un tema, quello dei monumenti commemorativi, che aveva già affrontato a Bozzana, Dimaro e Volano (1922), Ziano e S.Ilario (1923). L'idea di massima riprende il modello dei capitello di Montagnaga di Pinè (1924) vera elegia del lavoro nei campi. A Malosco Wenter Marini dialoga con sensibilità con la parte esistente dei cimitero assestandosi in un ampliamento quadrangolare leggermente rialzato. Lasciando retorica 

ed obelischi l'architetto progetta una piccola cappellina: un volume a base rettangolare con pronao. Tutte le pareti, sia esterne che interne, sono il testo per una storia di dolore e di distacco. 1 fanti a cavallo girano lungo tutti i prospetti, all'interno la tragedia della guerra è pulsante: la morte con la falce, il pianto delle madri e delle spose, i soldati ed i civili in fuga ridotti a semplici sagome (l'individuo che la follia della guerra prima omologa e poi annulla). Al centro della composizione il Triangolo con il Crocifisso. L'altare di belle proporzioni unisce la sua mensa alle immagini dei Caduti "costretti a pugnare" come recita la scritta. Anche le altre parti dei piccolo edificio contengono testimonianze dell'arte di Wenter Marini il quale libera la propria fantasia in una serie di simboli, motivi decorativi, scritte in latino ecc... Scolpite anche le travi in legno del pronao mentre degli elementi stilizzati in ferro chiudono le feritoie (nel muro di cinta) che si aprono verso l'esterno, mantenendo l'idea di non esorcizzare la morte. 

Il monumento si presenta in  discreto stato di conservazione soprattutto se lo confrontiamo con edifici simili dello stesso autore presentii in provincia lasciati al loro destino o 

malamente manomessi. Possiamo riscontrare solo un rimaneggiamento del suo contorno riguardante la pavimentazione originariamente in selciato oggi in acciottolato di porfido, che però lascia inalterata la lettura del monumento stesso.

Le principali cause di degrado sono l’umidità di risalita e l’azione meccanica degli agenti atmosferici che in questo punto sono particolarmente violenti soprattutto d’inverno.
Il restauro quindi verterà sull’eliminazione delle cause di degrado o sulla protezione dalla loro azione ove l’eliminazione non è possibile. 

Successivamente si procederà ad intervenire sulle lacune ed a ripristinare alcuni dettagli (in base alla documentazione fotografica del tempo) presenti nell’edificio originale ed in seguito modificati o eliminati o cambiati. ( es grondaia, manto di copertura).

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ANALISI DEL DEGRADO E INTERVENTI PROPOSTI
 
MURATURE ED INTONACI
 
TECNICA ESECUTIVA
La tecnica del graffito prende il nome dal “graphium” romano, lo stilo con cui, scalfendo la superficie, veniva realizzato il disegno.
Sul supporto in pietre e malta si è steso l’arriccio caratterizzato da una colorazione rosacea composto da calce idrata (sono presenti molti botaccioli) e sabbia a granulometria medio-grossa. Lo strato ha uno spessore variabile di circa cm 3.  Su di esso è stato applicato uno strato dello spessore di circa cm. 1 di intonaco colorato, giallo ocra, composto da sabbie, pigmenti stabili alla calce, e calce idrata. Su questo intonaco si è steso un velo di grassello o più mani di latte di calce. Il disegno è stato eseguito con lo spolvero ed incidendone i contorni si è asportato solo lo strato posto sopra l’intonaco colorato mettendo in luce quest’ultimo.
 
STATO DI CONSERVAZIONE

I fenomeni di degrado che hanno danneggiato il monumento sono di origine fisica,

prodotti dai meccanismi disgregatori delle varie forme di umidità che agiscono sul

manufatto.
Si riscontrano due tipologie di umidità:
umidità di risalita localizzata nello zoccolo della cappella, sede dell’altare;
umidità d’infiltrazione localizzata sulla parete nord ed est.
Lo stato di fatto è stato rilevato e rappresentato graficamente sulla tavola n. 1,

“Rilievo metrico e del degrado”. Si sono individuati tre livelli diversi evidenziati con

distinte colorazioni sulle rispettive pareti.
 
PARETI INTERNE DELLA CAPPELLA
Il degrado maggiore si rileva lungo lo zoccolo, fino ad un’altezza di cm 140 ca., e

comprende perlopiù la superficie intonacata, mentre la decorazione è solo marginalmente

compromessa sulla parete destra per una fascia di cm 45 ca..
Il danno, prodotto dall’umidità di risalita, si è manifestato con la formazione di vaste gore,

con efflorescenze saline, con il distacco dell’intonachino, la disgregazione della materia,

e la conseguente perdita di vaste porzioni di intonaco, fino ad arrivare al supporto murario

(vedi lesione sull’angolo destro).
 
PARETE EST

La posizione stessa della parete la sottopone ai danni prodotti dall’umidità d’infiltrazione

che ha agito sulle particelle carbonatiche della materia disgregandola fino ad una parziale

perdita dell’apparato decorativo.
Il degrado di tipo fisico agisce qui in sinergia con un degrado biologico.
La superficie decorata presenta innumerevoli microlesioni e microfessurazioni, all’interno

delle quali si sono insediati agenti biodeteriogeni come muschi e licheni creando

incrostazioni nere. Questo fenomeno si è manifestato anche sui conci in pietra calcarea

dello zoccolo.
La parte di parete protetta dal tettuccio del protiro evidenzia danni lievi.
 
PARETE NORD
La parete presenta fenomeni disgregativi generalmente non gravi, che hanno portato alla

formazione di lacune superficiali, di microfessurazioni.
Sull’area inferiore dell’angolo sinistro si rileva una vasta mancanza d’intonaco che mette

in luce l’arriccio.
La presenza di gore di umidità localizzate lungo il bordo inferiore, a contatto con i conci

in pietra dello zoccolo, indica una alta concentrazione di sali solubili.
I conci sono anneriti dalle incrostazioni di biodeteriogeni (licheni).
Sull’angolo destro, in alto, si evidenzia un tamponamento in malta cementizia per

l’inserimento di un supporto per cavo elettrico.
 

PARETE OVEST
Su questa parete si riscontra un degrado di media gravità.
Sull’angolo sinistro della parete si rileva una vasta e profonda lacuna con visione del supporto murario. Sullo stesso angolo, in basso sui conci in pietra, è stata eseguita una ampia e spessa stuccatura, con la funzione di bloccare un filo elettrico.
Lungo il bordo, adiacente allo zoccolo in pietra, sono visibili gore di umidità, formatesi per l’alta concentrazione di sali solubili, e mancanze profonde dell’intonachino.
Una mancanza limitata dell’intonachino è localizzata sull’angolo destro, formatasi in passato forse per la rottura della grondaia. Sempre in quest’area si rileva una zona di distacco dell’intonaco dall’arriccio, con la formazione di una fessura che corre lungo il bordo dello stemma.
Le pietre dello zoccolo sono infestate da biodeteriogeni (licheni).
 
PROTIRO
La decorazione del protiro è ben conservata, si rilevano solo limitate, leggere abrasioni.
La superficie delle chiavi in legno appare riarsa e presenta segni di incuria. Sono presenti depositi di polveri, depositi organici (guano) e particolati atmosferici, particolarmente consistenti nelle concavità. Sono visibili i residui della finitura precedente, ormai alterata, decoesa. Il degrado risulta maggiore sulla parte esterna degli elementi, mentre quella interna, più protetta, è meglio conservata.

 

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METODOLOGIA OPERATIVA

La prima operazione sarà rivolta alla conservazione delle parti di decorazione particolarmente decoese e degradate con un preconsolidamento eseguito con l’applicazione sulla superficie da trattare di carta giapponese e alcool polivinilico (tipo Poval) a bassa concentrazione (max 3-4%).
Si procederà poi alla limitazione della risalita di umidità dal terreno allo zoccolo della cappella. Si propone la creazione di una barriera chimica,  mirata alle zone interessate dal fenomeno  della risalita e cioè su tutto il lato nord, sul lato est ed ovest del corpo chiuso. La barriera sarà realizzata mediante l’iniezione nella muratura a pressione naturale  di resine polisilossaniche. L’operazione avviene perforando orizzontalmente il muro ogni 20 cm circa ad una quota il più vicino possibile al pavimento fino quasi alla superficie opposta del muro (circa 5 cm in meno); nei fori vengono collocati degli iniettori i quali rilasciano lentamente la resina formando in tal modo una barriera che impedisce all’acqua liquida di risalire per capillarità nella muratura veicolando i sali solubili. Prima di tale operazione, nella zona interessata dall’intervento, si inietterà  a bassa pressione una soluzione di calce con lo scopo di chiudere gli interstizi e compattare il muro evitando in seguito dispersioni di resine.
L’intonaco fatiscente dello zoccolo sarà demolito. Il supporto murario sarà accuratamente lavato per eliminare la maggior quantità possibile di sali solubili. Il muro sarà in seguito lasciato asciugare perfettamente.
Si procederà in seguito alla stesura di un intonaco a base di calce idraulica a basso contenuto di sali ed inerti selezionati. L’intonaco sarà eseguito ad imitazione del precedente, con le stesse caratteristiche cromatiche e granulometriche.
L’apparato decorativo sarà pulito dai depositi incoerenti mediante una spolveratura con pennelli ed aspirapolveri.
La pulitura accurata delle superfici infestate da biodeteriogeni (licheni, muschi) sarà effettuata mediante l’applicazione di agenti biocidi a largo spettro (benzalconiocloruro, amuchina), spazzolatura ed accurati risciacqui.
Al fine di prolungare l’azione disinfestante si può ricorrere prima della stuccatura ad un’ulteriore azione di tipo batteriostatico; a tale scopo risulta funzionale un prodotto denominato Algophase.
Il consolidamento, peraltro limitato, sarà eseguito con malte idrauliche a basso contenuto di sali.
Le fessurazioni e le lacune saranno sigillate al fine di evitare l’infiltrazione ed il ristagno dell’ acqua.La stuccatura delle fessurazioni, delle lesioni  nonché la realizzazione di eventuali piccole integrazioni sarà effettuata mediante l’utilizzo di impasti a base di inerti selezionati miscelati a calce idraulica a basso contenuto di sali. L’impasto sarà effettuato ad imitazione dell’intonachino originale, riproponendone caratteristiche cromatiche e granulometriche. Al fine di evidenziare l’intervento estetico le lacune della decorazione a graffito saranno integrate completando le parti in rilievo mancanti, ma evitando l’applicazione dello strato di finitura bianco a calce. 

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Per limitare i danni alla superficie muraria, prodotti dall’infiltrazione di umidità data dalla pioggia battente, si propone la stesura a finire di un impregnante idrorepellente a base di oligomeri polissilossanici. Al fine di evitare la formazione di un film-barriera, il prodotto sarà diluito in acetone a bassa concentrazione (3 %).
Le chiavi in legno saranno accuratamente pulite  asportando meccanicamente, con l’utilizzo di spazzole e bisturi, i depositi di polveri, di particolati atmosferici, organici. Saranno rimossi i residui dello strato protettivo alterato.
Per proteggere gli elementi lignei dai danni prodotti dagli agenti atmosferici, si procederà alla stesura di un film di sacrificio a base di cera microcristallina.
Si provvederà all’asportazione del cavo elettrico, spostandolo su un supporto più idoneo.

ANALISI DEL DEGRADO E INTERVENTI PROPOSTI

COPERTURA

 

La copertura  della cappella è stata oggetto di un intervento di sostituzione in tempi recenti

a seguito del degrado di quella originale. Il lavoro è stato eseguito con scarsa attenzione al

delicato equilibrio architettonico dell’edificio così la posa di coppi più grandi di quelli originali

ne ha appesantito l’immagine. (sul fronte 22 file anziché 28) L’intervento è stato inoltre

eseguito in maniera piuttosto grossolana per cui si notano diversi difetti nelle finiture e la

piccola orditura del tetto più alto è stata modificata.
La copertura attuale della cappella ha struttura in legno ed è ricoperta da un manto in coppi

di cotto con colmi di falda sempre in coppi fissati con malta di cemento. In corrispondenza

del protiro sopra alle colonne e all’incrocio dei colmi ci sono dei semplici pumi in pietra

formati da un basamento con soprastante sfera.
La struttura lignea presenta segni di degrado sulle mantovane a vista. I coppi di colmo così

come i pumi sono fissati alla copertura in modo grossolano con malta di cemento. Stilature

di malta di cemento sono presenti lungo la linea di contatto della falda del protiro con la

cappella. Le acque meteoriche sono convogliate da un vistoso sistema di tubi pluviali e canali

di gronda in lamiera di rame postumi.
 Per la copertura si prevedono le seguenti operazioni:
-sostituzione delle mantovane degradate con nuove mantovane in legno di larice uguali a

quelle esistenti
-smontaggio totale dei coppi e dei pumi;
-asportazione di tutte le aggiunte cementizie;
-verifica della struttura in legno ed eventuale sostituzione di qualche tavola deteriorata;
-asportazione di tutto il sistema di tubi pluviali;
-rimontaggio del manto in coppi di cotto di grandezza adeguata con fissaggio dei colmi a

regola d’arte mediante malta di calce;
-rimontaggio dei pumi previa pulizia dai licheni tramite spazzolatura, trattamento biocida e

trattamento superficiale con resina acril siliconica di natura non filmotica;
-costruzione di un sistema di smaltimento delle acque 

piovane costituito da canali di gronda a sezione circolare sviluppo cm 22 con doccioni a

bocca di drago come nel progetto originale. Nella pavimentazione saranno realizzati due

appositi pozzetti drenanti per lo smaltimento delle acque dei doccioni. Tali pozzetti delle

dimensioni di cm 35 x 35 saranno ricavati  a filo della pavimentazione (non originale)

mediante la posa di una cordonata in pietra calcarea dello spessore di cm 6 la quale

racchiude un riempimento in ciottoli. A causa del problema del percolamento delle acque

dal tetto si dovranno istallare dei canali di gronda anche sul tetto della cappella non previsti

dal progetto originario. I canali saranno i sezione molto più ridotta di quelli esistenti in modo

da lasciar vedere il capitello terminale in mattoni  e non sarà istallato il tubo pluviale ma un

ulteriore doccione a testa di drago che scaricherà la poca acqua nella sottostante aiuola.
 
FERRO
 
Teca caduti
Le fotografie dei caduti di guerra sono protette da una teca in ferro battuto fissata alla retrostante pietra mediante viti e tasselli la quale è stata verniciata con un pesante strato di smalto nero. S propone lo smontaggio, l’asportazione della vernice con agenti chimici e meccanici combinati , il trattamento con convertitore di ruggine e una finitura di tipo ferromicaceo.
 
Altri elementi (lanterna, croce, grate originali della recinzione)
Tutte le altre parti in ferro dell’edificio sono ricoperti da un sottile strato di ossido di ferro.
Per essi si propone l’asportazione meccanica della ruggine mediante spazzole a mano ed il trattamento con convertitore di ruggine ed una mano a finire di ferromicaceo colore ferro. Per la lanterna è prevista la sostituzione degli attuali vetri, sicuramente non originali con dei vetri semitrasparenti non colorati.

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